Il richiamo del Sud

Il richiamo del Sud

Nel giorno della partenza il cielo era denso di nubi, sembrava come se tutte le nuvole fossero convenute ad un appuntamento sopra le nostre teste. Ci coprimmo, con quel poco d’invernale che c’eravamo portati, e ci avviammo con i nostri automezzi verso Genova, dove ci aspettava la nave che ci avrebbe portato in Africa. Durante la traversata, l’inverno ci diede l’ultima sferzata per ricordarci che avrebbe pazientemente atteso il nostro ritorno, ma poco importava se dovevamo ancora sopportare il cattivo tempo: uno sguardo alla bussola mi rassicurò, la rotta era giusta; andavamo verso sud, verso il sole e verso chissà quale avventura. Sbrigate le interminabili formalità doganali di Tunisi, partimmo immediatamente, sapendo di dover attraversare velocemente tutta la Tunisia e la Libia, per raggiungere al più presto la nostra meta: il Niger.
Percorremmo migliaia di chilometri attraversando prima città, poi paesi, villaggi, ed infine oasi sperdute. Guardavo affascinato dal finestrino del camion le immagini che scorrevano, l’Africa che passava, raccontandomi per mezzo di quegli scenari, la sua storia. Stavamo facendo un viaggio a ritroso nel tempo: lasciavamo la civilizzazione, il progresso del mondo occidentale e c’inoltravamo nel passato dell’uomo, un passato che sicuramente era appartenuto anche a noi. Sì, era anche il nostro passato.
Direzione sud. Il deserto ci apparve all’improvviso, e capii subito che anche quella volta sarebbe stato lui il più forte: se avessimo sbagliato qualcosa, non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di darci una bella lezione. C’inoltrammo cautamente, quasi con circoscrizione e con addosso quella sensazione di disagio e di timore che colpisce ogni volta che ci si addentra nel Sahara: ci si convive per tutto il viaggio, anche se dopo un po’ ci si abitua. Pochi chilometri ed il deserto ci circondò come in un magico abbraccio. Guardavo davanti a me. Non c’era nulla? Oppure vedevo qualcosa? Sì, vedevo me stesso intento a scrutare l’orizzonte; vedevo il sole, la luna e le stelle, vedevo il mondo dall’alto.
L’entrata in Niger ci diede la vera misura del viaggio, la sensazione del non ritorno: percorrendo un mare fatto di sabbia, c’eravamo inoltrati oltre una dimensione lontana nel tempo. Madama, avamposto militare nigerino, ci offrì il primo incontro con le popolazioni locali: carovane provenienti dalla Libia che, un tempo a dorso di dromedario ed ora su vecchi camion Mercedes, lì passano il controllo di frontiera. Un crocevia di popoli che s’incontrano nell’attesa di chissà cosa e chissà quando. Arrivammo nel tardo pomeriggio. Agadez, seconda città del Niger, ci accolse con il sorriso di un giovane militare che, impeccabile nella sua divisa, era seduto su di un vecchio ciclomotore con le cromature consumate dalle troppe lucidature ed il tachimetro fermo su di un numero interminabile di chilometri. Si offrì di accompagnarci in un luogo sicuro per la notte e ci fece segno di seguirlo. Attraversammo tutta la città, seguendo il militare che, ad ogni incrocio, si fermava a parlare con un suo compagno per informarlo sull’importante compito che stava svolgendo e per discutere delle strategie da seguire per condurci alla nostra meta sani e salvi. Sicuramente il tragitto adottato finì con l’essere ben più lungo del necessario, ma… come avremmo potuto privare il ragazzo del suo incarico?
Giungemmo in una radura, circondata tutt’intorno da una fitta vegetazione, come a formare un riparo naturale lontano da sguardi indiscreti e mani pericolose. La tenue luce che filtrava attraverso i rami contribuiva a trasmetterci una sensazione di sicurezza. Ringraziammo il militare e lo invitammo a cenare con noi, ma rifiutò e, fiero del suo operato, ci salutò mettendosi la mano sul cuore, come da usanza locale, non senza averci prima informati di tutti i pericoli che avremmo potuto correre se ci fossimo avventurati da soli nei meandri del centro abitato. Poi partì a tutto gas, sul suo ciclomotore cromato. Lo osservai allontanarsi e pensai a quanti amici e per quanto tempo avrebbe raccontato di quel salvataggio. In un batter d’occhio scomparve in una nuvola di sabbia. Uno sguardo d’intesa con i compagni bastò a farmi decidere di fare tutto il contrario delle sue raccomandazioni: velocemente montammo il campo e ci avviammo verso il centro abitato. Il desiderio di trovare l’uomo che cercavamo, Mohamed Mohamed, la guida di tutte le guide, colui che ci avrebbe indicato la giusta rotta per i dinosauri, era più forte della paura, quella paura che improvvisamente si era trasformata in una forza interiore. Ora che ci avvicinavamo all’obiettivo non potevamo tirarci indietro, non ora. La ricerca fu più difficile del previsto; l’alone di mistero che aleggiava attorno alla “grande guida” non ci permise di raccogliere nuove informazioni e ce ne tornammo all’accampamento, un po’ delusi. Esausto, salutai i compagni, entrai nel camion e sprofondai nel mondo dei miei sogni. Quella notte divenni la preda in fuga di un dinosauro. Ad incitare il gigantesco animale c’era un uomo vestito di nero, che suonava un piccolo tamburino: era Mohamed, o era la giusta vendetta del mio stomaco per quello che avevo trangugiato la sera prima? Nel dubbio, correvo veloce come il vento. La mattina successiva mi svegliai di soprassalto avvertendo dei rumori all’esterno del camion; mi affacciai e, dal finestrino, nella luce di un’alba multicolore, vidi un lungo pastrano: era di colore nero! Pensai al mio stomaco, alle visioni notturne ed al sogno che mi perseguitava. Poi, all’improvviso, il pastrano si mosse, ruotò lentamente su se stesso rivelandomi il volto del suo proprietario: era il viso di un uomo dai lineamenti marcati e dalla carnagione olivastra, le labbra delineate da sottilissimi baffi. Alzai ancora di più lo sguardo, fino ad incrociare i suoi occhi scuri come la notte e a quel punto compresi che quella che vedevo era la realtà, non stavo più sognando: ciò che vedevo erano gli occhi di un condottiero. Inaspettatamente la grande guida si era presentata al nostro accampamento.
Uomo di poche parole, Mohamed non ascoltò nulla di quello che io e miei compagni gli dicemmo: noi, incuriositi, avevamo incominciato a porgli una raffica di domande ma lui, in perfetto francese, chiese solo quale automezzo era alla testa della carovana, caricò le sue poche cose, e si sedette al posto del navigatore. In un attimo fu il caos; tutti accorsero per smontare il campo, io mi lanciai sul tavolo e presi le prime cose che mi capitarono fra le mani: mappa, bussola, crackers, spazzolino, sapone, e mi misi al posto di guida senza sapere bene cosa avrei usato. Quella mattina stabilimmo un nuovo record nello smontare il campo. Con un filo di voce disse: «Tout droit», lo guardai senza capire, «Tout droit» pronunciò di nuovo alzando il tono. Lo guardai di nuovo, poi misi in moto il camion e partii. Ora il comandante era lui, la grande guida e noi, in silenzio, l’avremmo seguito fino in capo al mondo. Vagammo nel deserto per giorni, apparentemente senza una rotta precisa; gli strumenti di bordo mi indicavano che eravamo a circa trecento chilometri a sud di Agadez e che tracciavamo dei cerchi concentrici.
L’urlo mi colpì all’improvviso, destandomi dal torpore di quel caldo pomeriggio: «Arrête, arrête!» Pigiai sul pedale del freno con tutta la mia forza e le quattordici tonnellate di camion furono proiettate paurosamente in avanti; l’abitacolo ondeggiò pericolosamente ed io soffrii con lui. Neanche il tempo di dare uno sguardo a tutti gli oggetti che erano rotolati sul pavimento della cabina che vidi Mohamed scendere ed incamminarsi velocemente verso una grande depressione di sabbia scura. Scesi anch’io e gli corsi dietro. Dietro di noi i miei compagni imprecavano per l’improvvisa frenata. Mohamed si arrestò dinanzi a quello che, in lontananza, sembrava essere un insieme di pietre dalla forma arrotondata e disposte in fila; affrettai il passo, e quando raggiunsi il punto ed i miei occhi misero a fuoco i dettagli, fui come ipnotizzato da quella visione: dalla sabbia emergeva una colonna vertebrale di dinosauro lunga all’incirca una decina di metri e disposta come il rilievo di una duna. Caddi in ginocchio commosso, allargai le braccia e gridai con tutto il fiato che avevo in corpo: «Dinosauri, dinosauri, dinosauri!» Col cuore che mi martellava in petto allungai lentamente la mano e sfiorai una vertebra ma la ritrassi immediatamente, come se avessi toccato una reliquia antica profanando un luogo sacro. Nel frattempo, anche i miei compagni si erano avvicinati ed osservavano stupefatti i resti fossili di altri dinosauri che coprivano l’intera zona. Gli scheletri erano orientati tutti in direzione nord, come se gli animali stessero fuggendo da chissà quale sconvolgimento preistorico. Piansi e risi. Non avremmo mai più dimenticato quell’esperienza; i fotogrammi di quel giorno sarebbero rimasti scolpiti nelle nostre menti e ci avrebbero accompagnati per il resto della nostra vita. Fotografai ogni minimo particolare e registrai la posizione sul satellitare. Sulla via del ritorno, seduto al volante, volsi lo sguardo verso Mohamed: un sorriso di soddisfazione rallegrava il suo volto. Tornati ad Agadez, ci congedammo dalla guida con calorosi abbracci e promesse di incontrarci nuovamente nel nostro prossimo viaggio.
Un controllo degli automezzi e il rifornimento di nuove provviste furono necessari per affrontare, più a nord-est, l’immenso massiccio dell’Air, la terra dei “forgeron”, gli artigiani creatori di gioielli. Artisti che, attraverso antiche tecniche di lavorazione, creano preziosi ornamenti. Ne avemmo una pratica dimostrazione allorché c’imbattemmo in un piccolo nucleo familiare stanziale, lungo le rive di un antico fiume. Quell’incontro così casuale ci permise di assistere, all’interno di una capanna, alla creazione di un gioiello con l’antica tecnica della cera a perdere. Padri, figli, e figli dei figli, in assoluto silenzio, chini sui loro attrezzi, si muovevano con gesti ripetitivi, lavorando ininterrottamente, con una tecnica in uso da secoli e che, probabilmente, lo sarà per molti secoli ancora. Ovunque ci fossero insediamenti umani, trovammo tracce delle lavorazioni di monili. Nei villaggi, le donne, avvolte nelle loro splendide vesti, con il viso dai lineamenti perfetti tatuato da simboli a noi incomprensibili, erano intente ad allestire dei piccoli tavoli dove esponevano i loro gioielli, e ci offrivano il frutto del lavoro dei loro uomini e dei loro figli: la ricchezza di quelle famiglie veniva esibita con mani protese, nella speranza di poter ricavare un piccolo guadagno dalla vendita di quei bellissimi oggetti artigianali, un compenso per il duro lavoro di interi nuclei familiari. Una delle donne s’inginocchiò davanti a me movendosi al ritmo di una nenia sussurrata al suo bimbo, che aveva sulle spalle, addormentato da quel canto di madre. Il suo viso era ornato da monili che illuminavano la sua bellezza: sul naso un piccolo bottone d’oro, ai lobi dei lunghi pendenti meravigliosamente cesellati. Avrà avuto non più di quattordici anni. Così piccola e già donna, così piccola e già madre. Mi chiese solo del sapone per suo figlio, ma avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa, ed io, incantato, gliela avrei data. Accettò solo del sapone.
Il ritorno verso casa, attraverso l’Algeria, ci svelò il segreto d’altri luoghi. Risalimmo il lungo fiume fossile Tafassasset, che originariamente, per mezzo delle sue acque, dava vita all’attuale deserto algerino. Navigando su quel fiume asciutto, mi sentivo un comandante al timone della sua nave. Il solco lasciato sulla sabbia dalle ruote del camion era come la scia di un’imbarcazione sull’acqua, e la polvere che si alzava come il fumo dei comignoli. Suonai il clacson; sulle aride sponde un gruppo d’uomini, intenti nel loro umile lavoro, alzarono per un attimo lo sguardo, giusto il tempo di un saluto, per poi ritornare ai propri compiti. Come sarebbe stata la loro esistenza se il fiume avesse avuto ancora le sue acque? Un sobbalzo improvviso del camion cancellò quelle immagini e di fronte a noi apparve Amguid. Fermammo i motori e restammo in rispettoso silenzio: eravamo al cospetto della più grande duna del Sahara, con i suoi trenta chilometri di lunghezza. Imponente e maestosa, dall’alto dei suoi ottocentonovanta metri, nulla la turbava; nemmeno si accorse di noi, lasciandoci riposare ai suoi piedi e facendoci godere della sua bellezza.
Un giorno, due giorni, tre giorni… Restare o partire.
Il confine nord dell’Algeria portava ancora qualche traccia antica, ma già s’intravedevano i primi segni del progresso e del degrado che avanzava inesorabilmente. Le immagini correvano veloci, troppo veloci, e in un attimo fummo completamente fuori dal deserto, e senza accorgercene ci trovammo nel traffico cittadino di Tunisi. Quella sera, in albergo, affacciandomi al balcone gettai un ultimo sguardo alle mie spalle, a ciò che mi lasciavo dietro, nella speranza di vedere ancora qualcosa; ma i profili delle case e le luci della città riempivano lo spazio attorno a me. Intravidi solo un piccolo bagliore in lontananza, come un richiamo. Riconobbi la sua luce: era il sud, ed era lì a ricordarmi il mio destino, tornare in Africa.

Alessandro

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