Quella mattina ero in tremendo ritardo, la stagione turistica stava per cominciare e da lì a pochi giorni sarebbero arrivati i primi viaggiatori dall’Italia. Nei mesi precedenti non avevo combinato molto, complice la stagione delle piogge mi ero un po’ impigrito, perdendo il ritmo dei giorni di intenso lavoro. Dovevo rimettermi in riga perché con l’arrivo della bella stagione la musica sarebbe cambiata. Mi aspettava una lunga giornata di lavoro ed ero ancora in strada, lontano dall’ufficio e in un orario d’intenso Traffico. «Merda!» se non mi sbrigavo rischiavo di giocarmi tutta la mattinata in mezzo al traffico. Guidavo la mia mini-moto, una Honda Ace125, un modello di una ventina d’anni fa ma ancora ufficialmente venduto in Madagascar, un vero peccato che in Italia non fosse mai stata importata, in molti avrebbero apprezzato la sua aria vintage.
Mentre zigzagavo fra una buca, un carretto e un pedone deciso a porre fine alla sua vita, con la coda dell’occhio vidi il muso di uno zebù troppo vicino al mio per non capire che da lì a qualche attimo ci saremmo scontrati, riducendo i nostri musi ad un solo brutto muso. Frenai ed urlai, non ricordo esattamente cosa, il cervello non aveva fatto in tempo a connettersi con l’apparato vocale, ma dall’occhio sbarrato del povero zebù, capii di aver detto qualcosa a lui poco gradita, accelerò il passo e guardandomi con un’aria di sfida, come a dire «vieni *vazaha dei miei stivali che ti sistemo io!», mi sbarrò completamente la strada, collimando la punta delle sue corna con la mia faccia. In quell’attimo di fermo immagine mi domandai se qualcuno avesse mai fatto una prova d’urto casco su un corno di zebù, probabilmente sarei stato il primo uomo a “sperimentarlo”.
Ripresa la lucidità imposta dal disastro che stavo vivendo, realizzai che andavo troppo veloce per non beccarmi una cornata da quell’ostinato bestione e cosi, per non dargliela vinta, rinunciai al corno-test – quanti like persi – e sterzai di lato saltando sul marciapiede ed entrando direttamente in un piccolo giardino di una casa sul lato della strada. Sorrisi, perché stavo diminuendo la velocità ed ero riuscito a “fregare” il bestione, ma avevo fatto male i calcoli, o li avevo fatti senza l’oste? Boh! fatto sta che quando stavo per arrestare la mia mini-moto super vintage, all’improvviso da sotto un’asse di legno sbuco un gallo, non feci in tempo a concretizzare anche questo pensiero che un urlo, da gallo, appunto, mi fece capire che lo avevo centrato in pieno, anzi gli ero proprio passato sopra. «Cacchio!» (Termine agricolo utilizzato in moltissimi contesti, trattandosi di una forma sostitutiva, probabilmente dovuta al dialetto romanesco, della parola caz… con un termine sentito come meno volgare) ci mancava anche il gallo. Arrestata la moto, spensi il motore, scesi, la misi sul cavalletto e mi tolsi il casco, tutto continuando a guardare quell’ammasso di penne non più identificabile. Poveretto, pensai, ma in fondo era solo un gallo. Dalla porta di una casa affacciata sul quel giardino usci un vecchio signore, lentamente si avvicinò al gallo stecchito è restò a fissarlo a lungo, poggiato sul suo bastone vecchio forse più di lui, senza dire nulla. Mi avvicinai anch’io, scusandomi e dando la colpa al Bestione, che nel frattempo se n’era andato per la sua strada, e senza neanche lasciarmi le generalità! L’anziano nel frattempo si era voltato verso di me poggiando la mano sul mio braccio, un tocco leggero ma che attirò la mia attenzione, mi girai e lui cominciò a parlare «Rija era il mio prediletto, il più educato e discreto del pollaio e l’unico che avesse il permesso di entrare in casa. Non era come gli altri, galli presuntuosi che cantano ad ogni ora della giornata solo per farsi belli davanti alle galline, Rija gorgheggiava solo al sorgere del sole, tre lunghi chicchirichì e poi si acquietava. Se ero in casa, entrava a farmi compagnia e se non c’ero se ne stava fuori a razzolare in giardino, viveva la sua giornata tranquillo, senza eccessi come gli altri. Era un gallo con la cresta sulla testa.
Mentre parlava aveva stretto la sua esile mano come a farmi sentire il peso di quello che diceva. Sentii il suo peso, ma ancora di più udii le sue parole. Mi scusai e mi offri di comprargliene un altro ben sapendo che non avrebbe accettato, disse che gliene avrei potuti comprarne altri mille ma nessun’altro avrebbe mai potuto rimpiazzare il suo Rija, e così dicendo lasciò il mio braccio e s’incamminò verso casa. Dopo pochi passi si arresto, lentamente si girò, fissò dritto nei miei occhi e disse «lei ha ucciso il mio Rjia, non lo dimentichi» e senza aggiungere altro rientro in casa portandosi dietro il suo dolore.
Mi sono chiesto a lungo come sarebbe stata la vita dell’anziano senza Rija: come avrebbe aspettato il sorgere del sole? Quale gallo avrebbe avuto adesso l’onore di entrare in casa, se mai un altro sarebbe riuscito a conquistare il posto di Rija? Troppe domande che avrei potuto applicare alla vita di qualsiasi altro animale o, peggio, qualsiasi altro essere vivente. Del resto, aver ucciso Rija non mi rendeva meno colpevole di coloro che uccidono uomini e donne in virtù di una guerra o di una religione. Non stavo combattendo anche io la mia guerra contro il caos cittadino, sacrificando il povero Rija al dio della puntualità?
Continuo a pensare al tocco di quel buon uomo come al tocco di un angelo che ha voluto, forse in maniera provvidenziale, spiegarmi a parole sue quanto possa essere importante la vita di ogni creatura. Se un attimo prima puoi essere il gallo più buono del pollaio, quello successivo puoi diventare un ammasso di piume inerte, in attesa di essere divorato dai vermi e dimenticato per sempre.
Ciò che conta, alla fine della corsa, non è chi sei ma la traccia che lasci su questo mondo. Ognuno di noi, per quanto piccolo e insignificante, non può fare a meno di chiedersi quanto possa valere davvero la vita di una creatura e quanto possa essere doloroso separarsi da ciò che ci ha allietato, proprio come l’anziano con Rija. Meditare su questi fatti mi lascia sempre un gusto amaro in fondo alla gola che mi spinge a chiedermi fino a quando continuerò a sentire le mie mani sporche del sangue di Rija e se mai questa sensazione di aver commesso un omicidio potrà essere in qualche modo cancellata.
Alessandro
* Vazaha: Appellativo con cui i Malgasci chiamano lo straniero bianco.